Colui il quale, ritenendosi titolare di un diritto di credito, trattenga i beni di proprietà del presunto debitore a titolo di garanzia, non commette appropriazione indebita se le cose sono legittimamente detenute in ragione del rapporto obbligatorio e sempre che non sia posta in essere una condotta dispositiva uti dominus, poiché in tal caso non si determina interversione del possesso.
L’imputato e la persona offesa si conoscevano da diversi anni, in quanto il primo era proprietario di un appartamento che si trovava in prossimità di un lago, e quindi in una località prevalentemente turistica, ed il secondo, da circa venti anni, locava con la propria famiglia detto immobile per il periodo estivo, trascorrendo sistematicamente lì le proprie vacanze. Per la parte restante dell’anno, invece il bene continuava ad essere nella disponibilità, ed occasionale godimento, del proprietario.
È chiaro che, con il passare del tempo, si era creata una consuetudine piuttosto consolidata e pertanto ne era conseguito anche un rapporto di fiducia tra le parti, tanto che il proprietario aveva consegnato nelle mani dell’affittuario le chiavi dell’appartamento e questi, dando un preavviso meramente telefonico, si recava presso l’abitazione senza che vi fosse necessità di incontrarsi fisicamente con il locatore. Oltretutto, la famiglia, al fine di ottenere un alloggio più confortevole aveva, negli anni, provveduto a sostituire o acquistare ex novo alcuni beni di vario genere e tipo (come un frigorifero nuovo, un televisore, un impianto stereo, un mobiletto, una bicicletta, una rete a doghe, vestiario ed accessori da cucina vari) andando ad integrare l’arredamento dell’appartamento, pur rimanendo nella titolarità di dette cose, che venivano lasciate nell’immobile per comodità.
L’aspettativa del Proprietario dell’immobile
Il protrarsi della situazione per ben venti anni ha fatto si che proprietario nutrisse una sorta di aspettativa circa la venuta della famiglia e soprattutto sui proventi che dal fitto dell’appartamento ogni anno gli derivavano.
In tale ottica si comprende la sorpresa dell’imputato-proprietario quando il conduttore, nella primavera del 2012, gli comunicava che per quell’anno avrebbe avuto alcuni impedimenti, legati principalmente a ragioni di salute, ragion per cui non avrebbe potuto trascorrere le vacanze nell’appartamento come di consueto. Infatti, appresa la notizia, accennava sin dai primi momenti ad alcuni danni da risarcire per l’avviso intempestivo e riagganciava con disappunto la telefonata.
Ciònonostante, la persona offesa riusciva a concordare con la moglie dell’imputato un incontro finalizzato al recupero dei propri beni che sarebbero poi stati trasferiti in un altro immobile, nella medesima località, fittato nella stessa estate dalla figlia. Tuttavia, nel giorno prestabilito, l’imputato non si presentava e la persona offesa, onde evitare qualsiasi rimostranza, pur essendo in possesso delle chiavi non entrava nell’appartamento rivolgendosi piuttosto alle forze dell’ordine al fine di ottenere una mediazione con l’imputato.
Quest’ultimo motivava alle autorità la propria condotta nel senso di non avere intenzione di restituire alcunché al vecchio inquilino fino a quando non sarebbero stati definiti i termini civilistici della questione.
La diffida alla restituzione delle cose
La situazione di stasi perdurava fino a quando, nel settembre 2012, il legale dell’inquilino faceva pervenire al proprietario una lettera nella quale si chiedeva, ancora una volta, la restituzione dei beni ancora presenti nell’appartamento.
A tale diffida, il proprietario ribadiva il proprio proposito di trattenere in garanzia i beni, in considerazione dei danni che egli riteneva di aver subito, specificando ulteriormente di averli riposti in una stanza all’esterno dell’appartamento.
Denuncia per Appropriazione indebita
Dunque, palesato tale intento, veniva depositata la denuncia per appropriazione indebita ai sensi dell’art. 646 c.p.
Nel procedimento di primo grado veniva riconosciuta la responsabilità penale e civile dell’imputato, sulla scorta della detenzione sine titulo dei beni del vecchio inquilino. In particolare, il giudice di prime cure aveva ritenuto che lo stesso rifiuto di restituire i beni determinasse l’interversione del possesso, necessaria alla configurazione dell’appropriazione indebita.
In particolare, stando alla tesi della Procura, la fondatezza dell’accusa poggiava sulla necessaria collaborazione dell’indagato per il recupero dei beni di proprietà dei vecchi inquilini, dal momento che, pur essendo costoro nella disponibilità delle chiavi dell’appartamento, non avrebbero potuto accedervi senza rischiare la violazione dell’altrui domicilio, in considerazione dello scioglimento dell’accordo per il fitto dell’immobile.
Detta ricostruzione, tuttavia, non sembrava affatto convincente per la difesa dell’indagato, che proponeva appello chiedendo la riforma della sentenza impugnata con l’assoluzione con formula piena, ai sensi dell’art. 530, comma 1, c.p.p., perché il fatto non sussiste, e solo in via subordinata, l’applicazione del minimo edittale ed i benefici di legge.
Motivi di Appello dell’imputato
Invero, si sottolineava come la disponibilità delle chiavi dell’appartamento sin dall’inizio della vicenda impedisse la configurazione di una reale disponibilità esclusiva dei beni in esso custoditi.
L’elemento soggettivo del reato di appropriazione indebita è il dolo specifico, consistente nella coscienza e volontà di far propria la cosa altrui senza averne titolo e, nel caso di specie esso non può ritenersi sussistente, dal momento che l’intenzione del proprietario non è mai stata quella di far un uso proprio dei beni, tanto più che questi sono stati tutti accantonati in altro luogo, rispetto all’appartamento, anche per consentire l’utilizzo di quest’ultimo ad un altro eventuale affittuario estivo.
Ulteriormente veniva rilevato come da un lato, il delitto di appropriazione indebita ha carattere commissivo e non anche omissivo, ragion per cui non potrebbe comunque ritenersi integrata la fattispecie, e dall’altra anche a voler considerare illecita la condotta, essa sarebbe comunque rientrante nell’alveo dell’art. 393 c.p., tenuto conto dell’intenzione di trattenere i beni in garanzia, che però non sarebbe comunque applicabile in considerazione dell’assenza di violenza sulle cose.
Denuncia Mancata riconsegna – Appropriazione indebita
La sentenza della Corte d’Appello di Trento ribalta l’esito del giudizio di primo grado, assolvendo l’imputato dal delitto di appropriazione indebita in considerazione dell’insussistenza degli elementi essenziali del delitto.
Nella motivazione della sentenza, la Corte, anzitutto, smentisce la teoria della difesa secondo la quale il bene sarebbe rimasto nella disponibilità dell’affittuario per il sol fatto che costui fosse in possesso delle chiavi dell’appartamento. Correttamente, infatti, i Giudici trentini rilevano come l’introduzione nell’appartamento da parte del vecchio inquilino avrebbe potuto avere anche conseguenze legali per lui negative, dal momento che i patti con il proprietario volevano che il primo potesse accedere previo preavviso e comunque nel periodo estivo, non a proprio piacimento. Oltretutto, una volta venuti meno i patti, è chiaro che l’accesso all’appartamento non era più da considerarsi legittimo.
In buona sostanza, la Corte, pur dovendo limitare le estreme conseguenze cui arriva il difensore dell’imputato, chiarisce che comunque, trattenere un bene a titolo di garanzia non costituisce appropriazione indebita, dal momento che non viene mutato il titolo di possesso e nemmeno è configurabile la volontà da parte del detentore del bene di farne un uso uti dominus.
Piuttosto, si specifica che “non è la ritenzione a fornire la prova dell’appropriazione, ma occorre sia anche dimostrato che quanto trattenuto sia stato utilizzato dal detentore, consistendo in ciò la effettività dell’atteggiamento appropriativo, vale a dire la interversione. In questo caso non risulta alcun uso diretto, o consentito ad altri, di quei beni, ma solo la loro segregazione, in attesa della definizione della materia controversa, per cui tutto si riduce ad una vertenza civilistica da definire nella sede propria, qualora le parti non dovessero riuscire a raggiungere, molto più saggiamente, accordi transattivi”.
La soluzione adottata dalla Corte sembra da condividersi, in considerazione dell’assenza di uno dei requisiti fondamentali della fattispecie, consistente proprio nell’appropriazione del bene detenuto.
Giurisprudenza di Cassazione a favore
Infatti, la Cassazione, nell’esprimere la portata della norma, ha chiarito come essa possa essere applicata quando l’agente dia alla cosa una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che giustificano il possesso (Cass. 20 ottobre 1953). Nel caso che oggi ci impegna non c’è alcun mutamento del titolo di possesso o di destinazione dei beni custoditi che, anzi, vengono addirittura prelevati ed accantonati dal proprietario dell’appartamento, al solo scopo di garantire il credito di cui egli ritiene di essere titolare.
Inoltre, come è stato correttamente rilevato dal difensore dell’imputato, il dolo richiesto dall’art. 646 c.p. è quello specifico, consistente nella volontà di far proprio un bene altrui, pur nella consapevolezza di non avere alcun diritto in merito. Nella presente vicenda, invece, la prospettiva dell’agente è proprio quella di restituire i beni non appena verranno delineati i termini della pendente questione civilistica, relativa ai danni che il proprietario ritiene di aver subito per la permanenza nell’appartamento da parte dell’affittuario.
In buona sostanza, la vicenda sembrerebbe muoversi proprio sul piano civile, piuttosto che su quello penale, fermo restando che la condotta del proprietario sembra essere mossa più dal risentimento, determinato dal non poter più fare affidamento sui proventi estivi del fitto, che da reali pretese economiche per danni concretamente subiti.
Si noti, peraltro, come la pronuncia si ponga sulla scia di numerosi precedenti della Suprema Corte di Cassazione.
È infatti consolidato l’orientamento per cui l’omessa restituzione della cosa e la sua ritenzione a titolo di garanzia di un preteso diritto di credito non integra il delitto di appropriazione indebita, non determinando una vera e propria interversione del possesso (Cass. n. 10774/2002).
La portata del principio, tuttavia, viene grandemente limitata nella prassi, allorquando l’imputato asserisca di aver trattenuto la cosa a compensazione di un diritto di credito. Infatti in questo caso vi è una sorta di ammissione, da parte dello stesso circa l’effettivo comportamento uti dominus sul bene, che valga effettivamente a modificare il rapporto diretto con la cosa, dal momento che la condotta appropriativa si giustifica in considerazione della necessità di compensare l’inadempimento di un’obbligazione civile. Ebbene, in questo caso, la giurisprudenza stabilisce che, affinché non si configuri il reato di appropriazione indebita, il credito vantato debba essere certo, liquido ed esigibile (Cass. n. 6080/2009) poiché solo in tal caso non potrà considerarsi la sussistenza di un ingiusto profitto.

