Appropriazione Indebita Denaro della società


L’Amministratore – rappresentante legale che si appropri del denaro della Società può essere condannato per appropriazione indebita aggravata dal danno patrimoniale di rilevante gravità e dall’abuso di relazioni d’ufficio.


La sentenza che si andrà a spiegare (Corte d’Appello de L’Aquila, Sent., 08-03-2013) ritrae la vicenda che vede quale protagonista un noto imprenditore del luogo, imputato Appropriazione Indebita di Denaro della società.

Durante gli anni 2000, ottiene la nomina, in diverse ditte edili, in qualità di amministratore unico e rappresentante legale con i più ampi poteri conferiti dallo Statuto.

Otteneva dunque l’esercizio delle facoltà sia nell’ambito dell’ ordinaria amministrazione che in quella straordinaria, potendo occuparsi della gestione dei rapporti contrattuali con clienti e fornitori, anche con riferimento alla ricezione di pagamenti e alle varie quietanze da rilasciare, accedendo ai conti correnti societari senza alcun bisogno di atti preliminari e con potere di prelievo e di deposito.

Ebbene, è stato proprio il potere di quietanzare i pagamenti a far sì che le sottrazioni si palesassero anche ai soci .

Infatti, fino a quando egli restava solo nella propria posizione di amministratore unico della società, la gestione era completamente affidata nelle sue mani, cosicché anche effettuare dei controlli sul suo operato era cosa tutt’altro che semplice.

La stranezza delle manovre, piuttosto, cominciava ad emergere con l’affiancamento alla carica di altri amministratori con i medesimi poteri e con le stesse facoltà.

A quel punto, l’amministratore imputato rassegnava tempestivamente le proprie dimissioni, lasciando tutta la gestione nelle mani del neo amministratore.

Ecco allora che la documentazione societaria risultava evidentemente in contrasto con le disponibilità sui conti correnti, decisamente inferiori rispetto alle somme che risultavano all’incasso.

In particolare, risultavano quietanzati numerosi pagamenti effettuati dalla clientela, dei quali però non vi era alcuna traccia né sui conti correnti, né nelle casse societarie.

Querela Appropriazione Indebita al rappresentante legale della società

Le indagini sono quindi partite proprio dalle querele presentate dai neo amministratori che, condotti al sospetto dagli ammanchi, hanno provveduto a cautelarsi anche mediante il ricorso alle Autorità Giudiziarie, assistiti da Avvocati Penalisti esperti di Appropriazione Indebita.

Gli accertamenti e le indagini condotte dagli inquirenti hanno scoperchiato il vaso di Pandora, facendo emergere anni di furti ai danni delle aziende amministrate, per un valore superiore ai 300mila euro, con la conseguenza inevitabile della richiesta di rinvio a giudizio per appropriazione indebita ex art. 646 c.p., aggravata, anzitutto, dal danno patrimoniale di rilevante entità ex art. 61, n. 7, c.p., giacché il valore complessivo delle somme sottratte risultava essere addirittura superiore ai 500mila euro.

Già nel corso del primo grado di giudizio, svoltosi nelle forme del rito abbreviato (ex artt. 438 e ss c.p.), la questione controversa era proprio la sussistenza o meno dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 11 del codice penale.

Detta circostanza riguarda l’ipotesi in cui il reato sia stato commesso mediante “l’abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni d’ufficio, di prestazioni d’opera, di coabitazione e di ospitalità”, tenuto conto del maggiore disvalore sociale che una condotta criminosa assume nell’ambito di contesti in cui l’affidamento della persona offesa è sicuramente maggiore.

Guardando però alla fattispecie criminosa concretamente analizzata nel processo, e cioè all’appropriazione indebita, è emerso un dato ulteriore.             Infatti, detta circostanza assume la connotazione della specialità, giacché espressamente richiamata dall’ultimo comma dell’art. 646 c.p. che prevede “si procede d’ufficio, se ricorre la circostanza indicata nel capoverso precedente o taluna delle circostanze indicate nel n. 11 dell’art. 61”.

Ecco allora che la configurabilità di una di queste condizioni può modificare sia la procedibilità dell’azione penale che la quantità di pena da irrogare in concreto all’imputato.

La Corte d’Appello dell’Aquila, in un primo momento, riformando la sentenza di primo grado, aveva negato l’applicabilità dell’art. 61, n. 11, c.p., ritenendo quindi la procedibilità a querela del delitto contestato.

Ciò era effettivamente preclusivo, dal momento che la condotta distrattiva era stata denunziata solo con il subentrare nella carica dei successivi amministratori e quindi non solo molto tempo dopo che il furto si era concretamente consumato ma anche dopo diverso tempo dalla conoscenza della notizia di reato. La conseguenza era quindi che le querele per l’appropriazione erano state proposte oltre il termine  dei 3 mesi previsti dall’art. 124 c.p.

Procedibilità Appropriazione Indebita Denaro Società

Rilevata la tardività delle querele e ritenuta improcedibile l’azione penale, era stata emessa una sentenza di non doversi procedere ai sensi dell’art. 529 c.p.p., avverso la quale la Procura generale della Repubblica aveva proposto ricorso in Cassazione.

La sentenza qui commentata, dunque, è frutto del rinvio operato dalla Suprema Corte che aveva annullato la sentenza impugnata e rimesso nuovamente la questione alla Corte d’Appello, al fine di rideterminare nel merito la pena da irrogare all’imputato, tenuto conto dell’applicabilità al caso concreto, oltre che dell’art. 61, n. 7, c.p., anche dell’art. 61, n. 11, c.p.

Detta  circostanza aggravante, che in relazione alla fattispecie assume la caratteristica della specialità (ex art. 646, ult. Comma, c.p.), determina un mutamento nella procedibilità dell’azione penale, rendendo del tutto irrilevante la tempestività o la tardività della querela.

Infatti, la Corte di Cassazione ha ritenuto che nel caso di specie non vi fosse alcun dubbio in merito alla configurabilità di un abuso di relazioni di ufficio, in considerazione della carica di amministratore rivestita dal soggetto agente e della facilità con cui lo stesso è riuscito ad appropriarsi delle somme senza nemmeno particolari artifizi.

Aggravante Relazioni d’ufficio dell’Amministratore con Fornitori e Banche

A ben vedere, le relazioni che vengono prese in considerazione hanno la caratteristica di agevolare la commissione del delitto da parte dell’agente in funzione di una relazione di fatto con la persona offesa dal reato, che può essere di tipo lavorativo, affettivo o domestico, anche semplicemente occasionale (come ad esempio nell’ipotesi di abuso di ospitalità, cfr. Cass. n. 35187/2002).

Nella vicenda di cui in sentenza, può senz’altro ritenersi che la relazione tra l’amministratore e la società possa qualificarsi come posizione d’ufficio e per certi versi di autorità.

Sul punto, si consideri che egli non sarebbe mai potuto entrare nella materiale disponibilità delle somme se non in occasione del ruolo rivestito in azienda, dal momento che quel denaro si trovava sui conti correnti societari o comunque proveniva dai clienti delle ditte edili che effettuavano i pagamenti per i lavori ricevuti dalle ditte stesse.

Sotto altro profilo, si guardi all’ampiezza dei poteri conferita dagli Statuti agli amministratori sociali, laddove veniva consentito addirittura che l’amministratore e rappresentante legale potesse accedere liberamente alle casse societarie, attingendo alle stesse senza alcuna attività cautelare preliminare e anche contrattando direttamente con Istituti di credito e Banche.

Pertanto, non può esserci alcun dubbio sul fatto che siano state proprio queste vicende, complessivamente considerate, a creare direttamente le circostanze atte a consentire il perpetrarsi della condotta criminosa, giacché in mancanza, l’amministratore non avrebbe potuto operare il furto con la stessa facilità.

Confusione della documentazione societaria

Per contro, la tesi difensiva dell’Avvocato dell’imputato aveva sostenuto le ragioni negando gli addebiti e riconoscendo anzi solo una sostanziale confusione nella documentazione, negando in toto l’appropriazione e l’impossessamento delle somme.

In effetti, pur non veniva negata la veridicità delle firme apposte in calce a fatture, quietanze e ricevute di vario genere, né venivano giustificati adeguatamente gli ammanchi e le discrepanze sussistenti dagli importi risultanti dalla documentazione cartacea e quelli concretamente presenti nelle casse sociali; in buona sostanza, a prescindere dalla sussistenza o meno dell’aggravante speciale di cui all’art. 646, ult co., cp., la difesa negava che la condotta di cui al capo di imputazione fosse stata concretamente posta in essere, nonostante gli atti di indagine conducessero ad una interpretazione diversa.

La Corte d’Appello dell’Aquila, posta l’analisi di entrambe le parti e sotto la spinta vincolante del dettato della Corte di Cassazione, non solo ha riconosciuto la responsabilità penale per il reato di cui all’art. 646 c.p. di Appropriazione Indebita Denaro della società ma, ha stabilito anche che:

Sussiste, dunque, il reato contestato e sussistono sia l’aggravante di cui all’art. 61 n. 7 c.p., attesi gli importi distratti, sia quella, contestata in fatto e da intendersi ricompresa nel capo d’imputazione secondo quanto sancito dalla Suprema Corte nel provvedimento di annullamento con rinvio, di cui all’art. 61 n. 11 c.p., che rende, in ogni caso, procedibile di ufficio il reato, a prescindere da profili di possibile tardività o meno delle querele presentate”.

Pena Appropriazione Indebita: 1 anno di reclusione e multa

Sulla scorta di tali riflessioni, dunque, l’amministratore è stato riconosciuto colpevole del reato di cui all’art. 646, ult. Co. c.p., ma gli venivano concesse le attenuanti generiche e la diminuzione prevista per il rito abbreviato scelto in primo grado, con una pena complessivamente definita di un anno di reclusione ed euro 500 di multa, pena sospesa in considerazione degli scarsi precedenti penali.

Alla luce delle precedenti riflessioni e del disposto della sentenza, da più parti è condiviso l’orientamento della Corte, soprattutto quando si guardino gli orientamenti giurisprudenziali che in materia sono andati a formarsi in merito alla definizione della sostanza e dei limiti in cui circoscrivere l’aggravante di cui all’art. 61, n. 11, c.p.

La giurisprudenza, già in epoca risalente, ha ritenuto di dover operare una interpretazione estensiva della disposizione, ricomprendendo nella relazione d’ufficio tutte quelle ipotesi in cui il reato sia stato commesso esorbitando i limiti delle proprie mansioni lavorative, “senza alcuna distinzione tra mansioni pubbliche o private, permanenti o temporanee, retribuite o gratuite”, tanto più che la norma trova applicazione anche se la carica abbia, addirittura, carattere onorifico (Cass., 5 febbraio 1953).

Gli orientamenti giurisprudenziali più recenti, a maggior ragione, hanno ampliato il raggio d’interesse della disposizione con riferimento al delitto di appropriazione indebita, proprio sulla scorta del principio ispiratore dell’aggravante, che attribuisce maggiore biasimo al comportamento di chi, profittando di una condizione di potere, vada ad avere sui beni altrui un approccio uti dominus, senza averne alcun titolo, come nel caso della Appropriazione Indebita di Denaro della società.

Sul punto, si è ritenuto che, affinché ricorra l’aggravante de qua:

 “è sufficiente l’esistenza di un qualsiasi rapporto, anche di mero fatto, da cui sia derivato in capo all’agente, il possesso della cosa e che ne abbia consentito una più facile appropriazione, in virtù della particolare fiducia in lui riposta

Cass., sez. II, n. 3924/2004

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