Il delitto di appropriazione indebita non può intendersi integrato dalla condotta del creditore che, a fronte dell’inadempimento del debitore (conduttore), eserciti a fini di garanzia del credito il diritto di ritenzione sulla cosa di proprietà di quest’ultimo, legittimamente detenuta in ragione del rapporto obbligatorio (locazione).
Non riconsegnare i beni al conduttore debitore non è Appropriazione Indebita: in tal caso non risulta, invero, modificato il rapporto tra il detentore ed il bene attraverso un comportamento oggettivo di disposizione uti dominus e l’intenzione soggettiva di interversione del possesso.
Sentenza Corte Appello Trento 20/10/2015
IMPUTAZIONE
REATO ex art.646 c.p. perché dopo aver locato P.G., per oltre un ventennio, un immobile in sua proprietà, all’atto del rilascio di detto immobile da parte del P., appropriandosene, si rifiutava di consegnare al conduttore i seguenti beni mobili che questi aveva allocato nel corso degli anni presso l’appartamento in conduzione, ovvero: un frigorifero, un televisore, un impianto stereo, un mobiletto, un bicicletta, una rete a doghe, vestiario ed accessori di cucina vari.
APPELLANTE
L’imputato avverso la sentenza del Tribunale di Trento in composizione monocratica n. 600/14 del 04/06/2014 che dichiarava l’imputato colpevole del reato a lui ascritto e, riconosciute le attenuanti generiche, lo condannava alla pena di gg. 15 di reclusione ed Euro 100 di multa; spese e tasse; pena sospesa; non menzione;
condannava l’imputato al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, oltre al pagamento delle spese costitutive, liquidate in Euro 1.500 oltre accessori;
Udita la relazione della causa fatta alla pubblica udienza dal Presidente
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
G.G. è stato condannato dal Tribunale Monocratico di Trento, previa concessione delle attenuanti generiche, alla pena di giorni 15 di reclusione ed Euro 100,00 di multa, con doppi benefici di legge ed al risarcimento del danno alla parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, per il reato di appropriazione indebita.
Da molti anni (circa 20) l’appartamento al lago di proprietà dell’imputato era stato dato in affitto nel periodo estivo, per due mesi, a P.G., che lo utilizzava con la sua famiglia.
L’intesa era che di anno in anno egli dava conferma dell’arrivo e ne specificava la data al proprietario, che lo lasciava libero e, poi, nemmeno ritirava le chiavi dall’affittuario, sapendo che sarebbe tornato l’anno dopo.
Medio tempore l’immobile rimaneva a disposizione del G..
Poiché questo era il rapporto, basato su una affidabilità reciproca, di fatto sperimentata negli anni, P. aveva anche provveduto ad integrare l’arredamento e le suppellettili con cose di suo gradimento o maggiore utilità, come un frigorifero nuovo, un televisore, un impianto stereo, un mobiletto, una bicicletta, una rete a doghe, vestiario ed accessori da cucina vari, rimasti di sua proprietà, ma lasciati nell’immobile.
In vista dell’estate 2012 P., per ragioni di salute proprie e della moglie aveva fatto sapere che non avrebbe ripreso l’appartamento per l’estate ed aveva chiesto a G. di incontrarsi per il recupero delle sue cose.
La prima comunicazione era avvenuta telefonicamente e l’imputato, contrariato, aveva subito accennato all’esistenza di danni da risarcire, quindi aveva bloccato la conversazione; fatto sta che su successiva intesa di P., puntualizzato il giorno prima con la moglie dell’imputato, si concordò un accesso il 5 luglio 2012, data nella quale egli si presentò con varie persone di supporto per ritirare gli oggetti da trasferire in un vicino appartamento che, intanto, la figlia del P., E., aveva preso in locazione per quell’anno.
L’operazione, però, non fu possibile perché l’imputato non si fece trovare, né rispose alle telefonate ed agli sms inviatigli.
A quel punto, data la situazione di contrasto, il vecchio inquilino non si ritenne autorizzato ad entrare in casa, pur disponendo ancora delle chiavi.
Verso metà luglio si era rivolta ai carabinieri la figlia del P. per ottenere una mediazione che potesse consentire una soluzione al problema ed il M.llo G. telefonò al G., che, ben al corrente del problema, fece intendere che stava trattenendo le cose perché c’era da definire delle pretese che anch’egli aveva verso l’inquilino.
La situazione rimase così ferma nel silenzio dell’imputato, tanto che, alla fine P. si indusse a sporgere querela per appropriazione indebita.
Il primo giudice, dopo aver evidenziato che il proprietario non aveva fornito alcuna indicazione di danni subiti da indennizzare e che in ogni caso non avrebbe avuto alcun diritto di ritenzione dei beni mobili altrui, ritenuto il suo comportamento del tutto ingiustificato, considerò verificata la interversione del possesso e maturata l’appropriazione dei beni, dei quali aveva, di fatto, rifiutato la restituzione.
Né egli aveva attribuito soverchia rilevanza ad una lettera dell’imputato del 2 settembre 2012, di risposta ad un sollecito alla restituzione fatto inviare dall’avvocato; lettera nella quale G. sosteneva che in una stanza fuori dall’appartamento erano rimaste concentrate le sue cose che egli avrebbe dovuto riprendersi non appena avesse sistemato i conti in sospeso.
Ha interposto appello il difensore il quale contesta in radice le affermazioni contenute in sentenza rilevando che il querelante aveva sempre mantenuto la disponibilità dell’appartamento, avendo trattenuto, col consenso del proprietario, le chiavi, sì che nulla gli avrebbe impedito di ritirare le sue cose, se queste fossero state veramente sue e non, piuttosto, oggetti acquistati per sostituirne altri, nel tempo danneggiati o resi inutilizzabili. Sotto questo profilo avrebbe dovuto per primo il P. dimostrare la proprietà di quei beni, come non ha fatto.
In altri termini, presupposto perché il reato di appropriazione indebita possa configurarsi è che l’imputato avesse avuto la libera disponibilità propria dei beni contestati e che poi se ne fosse appropriato intervertendo il possesso, come non può dirsi in questo caso in cui la libera disponibilità dell’immobile e delle cose in esso contenute era sempre stata del querelante, che aveva trattenuto le chiavi. Il dolo specifico richiesto dalla norma incriminatrice non sarebbe stato integrato, non avendo mai l’imputato inteso appropriarsi di beni non suoi, anzi, quelli pretesi, erano stati accantonati in un garage, a disposizione del P. e da lui mai ritirati, così lasciando che spazio dell’imputato, che egli avrebbe potuto meglio utilizzare, rimanesse occupato.
In ogni caso l’appropriazione indebita ha natura commissiva e non omissiva, sì che potendosi, al limite, addebitare solo omissioni, essa sarebbe comunque insussistente.
Secondo il difensore da nessun punto di vista potrebbe ravvisarsi ipotesi di reato, nemmeno se si volesse recepire l’inesatta interpretazione del giudice secondo cui l’imputato intendeva trattenere quei beni per ripagarsi di danni subiti dall’appartamento, perché in tal caso si dovrebbe parlare di esercizio arbitrario delle proprie ragioni che, però, non è configurabile, mancando la violenza alle persone o sulle cose.
La richiesta è, perciò di assoluzione per insussistenza del fatto; in subordine di riduzione della pena al minimo di legge.
Con motivi aggiunti, successivamente depositati, il difensore richiama l’attenzione sul fatto che lo stesso P. ha ammesso di aver avuto la disponibilità delle chiavi, con tutte le implicazioni in termini di libera possibilità di recupero dei suoi oggetti, tanto più che era stato concordato un apposito appuntamento per il 5 luglio; sottolinea, inoltre che, secondo le dichiarazioni della figlia E., il frigorifero era stato acquistato da lei e non dal padre, sì che la rivendicazione fatta da costui è addirittura falsa.
L’appello è fondato e deve essere accolto.
Il primo giudice ha, nella sostanza, ritenuto che esercitare un diritto di ritenzione non consentito fosse per sé stesso dimostrativo di un intento appropriativo e riscontro concreto di una volontà ostativa alla restituzione; e ciò perché, nella situazione creatasi, il P. non avrebbe potuto recuperare i suoi beni senza la collaborazione dell’imputato, che era stata, invece, nei fatti negata, dopo che all’appuntamento del 5 luglio il proprietario non si era presentato e che successive ricerche e solleciti non avevano sortito effetti.
Libera disponibilità dell’immobile, quando si ha?
Il difensore dell’imputato, traendo spunto dal fatto che, incontroversamente, l’inquilino aveva sempre trattenuto le chiavi di casa col consenso del proprietario, ha estremizzato il significato di questa circostanza per dedurne che, in realtà, G. mai aveva recuperato la libera disponibilità dell’immobile, rimasto nella detenzione del P., con la implicazione di una impossibile configurazione del reato contestato. La tesi è palesemente infondata perché del tutto pacifico, secondo le intese consolidate, è che nell’immobile di Calceranica soggiornava P. nei mesi estivi, mentre esso rimaneva a disposizione del proprietario per il resto dell’anno.
I fatti in contestazione si erano verificati prima che il denunciante mettesse piede in casa e, quindi, quando esso si trovava ancora nella disponibilità del G., con tutte le suppellettili esistenti, o ivi depositate.
Bene aveva fatto, quindi, P. a chiedere il consenso dell’imputato e la sua presenza, per ritirare i propri oggetti, onde evitare eventuali accuse di intromissione illegittima nell’abitazione altrui che, per il 2012, nemmeno era stata investita da una ripresa di fatto del rapporto locatizio, avendo la parte lesa comunicato disdetta.
Vero è, dunque, che per condurre in porto il recupero era necessaria la collaborazione del proprietario che, disturbato dalla sorpresa di non poter contare più sulle intese tradizionali, non aveva offerto tutta la disponibilità possibile; ma ciò, se è rilevante sul piano civilistico, ancora non significa, su quello penale, che G. avesse inteso appropriarsi delle cose altrui.
Egli semplicemente, le stava trattenendo, con un comportamento a metà strada tra il dispetto e la necessità di assicurarsi una garanzia, in vista del soddisfacimento delle proprie pretese risarcitone, quali anche analiticamente enunciate nella lettera di risposta del 2 settembre 2012, nella quale venivano richiamati i danni alla porta d’ingresso graffiata dal cane dei P.; la rottura delle piastrelle dinanzi casa, determinata dal passaggio del loro fuoristrada; la necessità di una bonifica e disinfestazione dei locali interni, correntemente frequentati anche dal cane, ecc..
Diritto di ritenzione della garanzia patrimoniale
Non si discute qui sulla fondatezza o meno di tali pretese; mette conto, invece, rilevare che G. riteneva, dal suo punto di vista, di avere ragioni da far valere prima di accedere alla restituzione e, per altro verso, non negava certo l’appartenenza a P. delle cose da lui rivendicate, tanto da averle accantonate in uno spazio proprio, rimasto anche invaso da quella presenza.
Il problema giuridico sorge a questo punto, posto che appropriazione indebita sussiste solo se possa dirsi che vi sia stata una interversione del possesso, per cui il detentore delle cose (certamente G.), mutando il proprio animus possidendi, avesse inteso comportarsi su di esse uti dominus e, perciò, farle proprie.
Nel caso di specie non sembra che questo possa essere affermato, alla luce della giurisprudenza di legittimità che così si esprime:
Sez. 2, Sentenza n. 17295 del 23/03/2011 Cc. (dep. 04/05/2011 ) Rv. 250100 ‘Non integra il delitto di appropriazione indebita il creditore che, a fronte dell’inadempimento del debitore, eserciti a fini di garanzia del credito il diritto di ritenzione sulla cosa di proprietà di quest’ultimo legittimamente detenuta in ragione del rapporto obbligatorio, a meno che egli non compia sul bene atti di disposizione che rivelino l’intenzione di convertire il possesso in proprietà.”.
Sez. 2, Sentenza n. 10774 del 25/01/2002 Ud. (dep. 14/03/2002 ) Rv. 221522 “L’omessa restituzione della cosa e la sua ritenzione a titolo precario, a garanzia di un preteso diritto di credito, non integra il reato di appropriazione indebita ai sensi dell’art. 646 cod. pen., in quanto non modifica il rapporto tra il detentore ed il bene attraverso un comportamento oggettivo di disposizione “uti dominus” e l’intenzione soggettiva di interversione del possesso.” .
E ciò sulla scia di giurisprudenza anche molto risalente nel tempo e mai modificata
Sez. 2, Sentenza n. 9410 del 27/05/1981 Ud. (dep. 24/10/1981 ) Rv. 150664 “La semplice ritenzione precaria, attuata a garanzia di un preteso diritto di credito, conservando la cosa a disposizione del proprietario a condizione dell’adempimento della prestazione cui lo si ritiene obbligato, non costituisce appropriazione poiché non modifica la natura del rapporto giuridico tra Vagente e la cosa”.
In altri termini, non è la ritenzione a fornire la prova dell’appropriazione, ma occorre sia anche dimostrato che quanto trattenuto sia stato utilizzato dal detentore, consistendo in ciò la effettività dell’atteggiamento appropriativo, vale a dire la interversione.
In questo caso non risulta alcun uso diretto, o consentito ad altri, di quei beni, ma solo la loro segregazione, in attesa della definizione della materia controversa, per cui tutto si riduce ad una vertenza civilistica da definire nella sede propria, qualora le parti non dovessero riuscire a raggiungere, molto più saggiamente, accordi transattivi.
Consegue che l’imputato debba essere mandato assolto per insussistenza del fatto.
P.Q.M.
Visto l’art. 605 c.p.p.;
In riforma della sentenza impugnata assolve l’imputato dal reato ascrittogli perchè il fatto non sussiste.
Fissa il termine di giorni 30 per il deposito della sentenza.
Per una spiegazione della sentenza clicca qui: https://appropriazione-indebita.it/sentenze-di-merito/diritto-ritenzione-appropriazione-indebita/

